Qual è l’orientamento dello yoga del Kashmir?

Lo yoga del Kashmir è basato sui testi. Vi sono il Vijnanabhairava Tantra, lo Svabodhodayamanjari del Sud di Vamanadatta o l’Isvarapratyabhijna Karika di Utpaladeva.

Questi testi non sono esercizi da fare, sono delle descrizioni dello stato naturale di una Coscienza non ostruita dall’immaginario egoico. Su un certo piano, è un po’ come l’immagine data da Jean Klein : “Una locomotiva tira il treno, è la discriminazione; c’è un’altra locomotiva dietro il treno, lo yoga. La prima tira, la seconda spinge”.

Lui vedeva lo yoga come la seconda locomotiva che andava nella stessa direzione del treno essenziale che è la non-discriminazione, l’apertura. Ci si accosta allo stato non duale, vale a dire lo stato che vive colui che non ha più resistenza personale. Si vive come se si fosse non egoici, un pò come una locomotiva che spinge nella stessa direzione non egoica. Si scoprono delle tecniche di vacuità.

Questa disponibilità è lo stato naturale in colui che è senza struttura egoica. Questo purifica il mentale e porta una risonanza con questa disponibilità. E’ un artificio, quando lo yoga si arresta, la vacuità rapidamente si arresta.

Colui che fa esercizi tutti i giorni per trovare questo stato vacante e vive ancora un mentale personale, ricadrà inevitabilmente nel suo limite.

Riattivata la tenzione corporea, occorrerà rifare degli esercizi per ritrovare quel mentale vacante, e cosi via.

Vi sono alcuni casi specifici nel Vijnanabhairava Tantra che fanno allusione al non-contatto con suolo, al respiro nella spazialità, al corpo vacante interno ed esterno, alla mescolanza della vacuità interna ed esterna, alla vibrazione e all’energia, alla vibrazione che si espande nello spazio. Sono elementi che racchiudono segretamente i punti di pratica della tradizione. A mia conoscenza, non vi sono testi che parlino delle posizioni dello yoga. Le posizioni dello yoga appartengono alla tradizione antica dello yoga e non c’è da parlarne.

Le persone attratte dalla spiritualità verosimilmente praticavano naturalmente le pose dello yoga. Il vero yoga inizia dopo. In questa disponibilità ci si apre alla presa di coscienza dell’energia interna. Abhinavagupta si burla del lavoro corporeo e si burla del lavoro del respiro mettendo l’accento sui momenti dopo l’espiro e l’inspiro, che sono dei non tempi e che non devono essere contabilizzati come in Patanjali. Questo prova la sua familiarità col lavoro del respiro e la sua conoscenza del pranayama. La sua critica chiarisce l’orientamento : lo yoga non è un mezzo verso un risultato.

Al contrario, è perchè si è presentito che vi è altro nella vita oltre le relazioni umane, i soldi, o la salute, che la pratica arriva naturalmente, non per trovare, ma per rendere disponibile a questa evidenza. La pratica è inscritta nella tradizione indiana, che non parla che di principi. Le applicazioni sono raramente menzionate nei testi, poiché esse devono essere adattate in maniera precisa, allievo dopo allievo, maestro dopo maestro.

Le applicazioni non si trovano nei testi perché sarebbero contraddittorie. Sta a coloro che insegnano i testi a trasformare pedagogicamente questi principi in pratiche. E’ solo nello yoga tardivo che abbiamo dei testi specifici, poiché è uno yoga che assai presto è divenuto arrivista.

Lo yoga è giunto, in scuole come per esempio quelle dei Nath, ad essere un mezzo per giungere a un fine.

Abhinavagupta dice molto chiaramente che è Siva che porta lo yoga e non lo yoga che porta a Siva. E’ la grande differenza con lo yoga intenzionale delle scuole classiche.

Eric Baret

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